Nicoló, Duccio e il senso delle cose: Petriccio, la squadra che manca

Se il giornalismo d’informazione riveste la missione di trasmettere i fatti così come sono accaduti, il giornalismo narrativo vuole invece trasmettere al lettore, attraverso il vissuto soggettivo del personaggio del racconto, le emozioni che un luogo può donare. La rielaborazione narrativa come modalità per ricostruire l’esperienza soggettiva di abitare propone al lettore una comprensione profonda della realtà e nuovi stimoli all’immaginazione. E’ la prima rubrica che non racconta i fatti su Siena, ma cosa si può provare a viverla.

Auricolari alle orecchie, passeggio distratto per il campino da basket. Dai disegni colorati che recintano il campo riecheggiano le grida e gli incitamenti di chi era sempre presente, ormai quasi un anno fa, a giocare una partita ogni sabato pomeriggio.

Quando non sapevo cosa fare venivo a fare il tifo distratto. Appoggiavo i gomiti alla rete e cercavo di estrapolare con gli occhi le regole precise del gioco a partire dalle loro mosse. Qualcosa l’avevo capito: che per essere bravo, in un gioco di squadra, devi far sì che il tuo corpo sia in continua sintonia con quello degli altri. Se giochi senza far attenzione agli altri più che a te, hai già perso. La forza sta nel continuo gioco di coordinazione, mai definitamente instaurato e da rinnovare a ogni mossa.

In piedi, in mezzo a questo campo deserto, mi accorgo quanto questo momento storico sia povero di coordinazione con gli altri. Nella propria stanza, dal proprio computer, ognuno lavora come se il mondo fuori fosse tutt’altra cosa. Un lontano ricordo che non lo riguarda più di tanto. Un ponte di dialogo digitale che è stanco di percorrere.

Dopo giornate passate in casa, i nostri gesti perdono di coordinazione. Gli schemi che assicuravano la percezione d’intesa con la squadra e un buon risultato di gioco, sono sciolti. Le mura di casa delimitano il nostro campo, i dispositivi tecnologici sono compagni e avversari della nostra partita quotidiana. Arriviamo a sera stanchi, sudati. Il numero che portavamo sulla maglietta è sbiadito, chi siamo adesso? Il nostro corpo continua a muoversi fra le stanze rimembrando come un mantra quell’orizzonte umano che lo delimita e costruisce. Spenta ogni luce artificiale, la solitudine si fa così dilagante che non ci si accorge più, della tenerezza prolungata che dava quella vecchia intesa di squadra.

All’angolo del campino scorgo un pallone, un po’ sgonfio. Lo raccolgo e mi posiziono dietro la riga gialla del tiro libero. Piego le ginocchia, assumo la posizione a lungo studiata e preparo le mie braccia al rilascio. Rimango così per qualche istante, in questa posizione che tante volte, da fuori, avevo sognato di assumere.

Un essere umano che lavora da solo, nella sua stanza, è come un giocatore di basket in un campo deserto, davanti a un canestro da centrare: l’obiettivo è lì, pronto a essere messo a segno ma lui non riesce a guardarlo. Tutta la sua attenzione rimane puntata alla continua ricerca della squadra che manca.

Duccio

Testo di Giada Finucci

Foto di Nicolò Ricci

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