“El padre abbandonava il figliuolo, la moglie el marito, e l’uno fratello l’altro: e gnuno fugiva e abandonava l’uno’, inperochè questo morbo s’attachava coll’alito e co’ la vista pareva, e così morivano. E poi, restata la pestilentia, ognuno che scanpò atendevano a godere; frati, preti, monache e secolari e donne tutti godevano, e non si curavano lo spendere e giocare, e a ognuno pareva essere richo poichè era scanpato e riguadagnato al mondo, e nissuno si sapea assettare a far niente”
Queste sono le parole di Agnolo di Tura del Grasso, (noto architetto senese e realizzatore di Porta Romana) che rappresenta la fonte più importante per raccontare cosa avvenne a Siena in quei terribili mesi della primavera/estate del 1348.
Da Agnolo sappiamo che la terribile “mortalità cominciò in Siena di magio” (anche se alcuni studi retrodatano l’arrivo del virus al mese di aprile) e ci fa capire che in pochi mesi il mondo sembra capovolgersi: i ricchi muoiono, i poveri si arricchiscono, le città si spopolano, le terre vengono abbandonate, i valori di riferimento, per tutti, cambiano.
Agnolo di Tura si rende conto di vivere un evento, nella sua drammaticità, epocale. “Non so da che parte cominciare”, dice, per raccontare questi giorni “e non è possibile a lingua umana a contare la oribile cosa, che ben si può dire beato a chi tanta oribilità non vidde”.
Ma poi racconta, e le sue parole ci fanno immergere, più di ogni altro documento, in quei giorni: “E morivano quasi di subito, e infiavano sotto il ditello e l’anguinaia e favellando cadevano morti”.
Dunque la peste che arriva in città è quella bubbonica (anche se probabilmente ci furono focolai anche della polmonare) e sembra giungere in maniera improvvisa, quasi prendendo alla sprovvista il Governo dei Nove, nonostante le notizie del contagio che si stava rapidamente espandendo circolassero da tempo e nonostante il fatto che alcune città si fossero premunite da tempo, resesi conto della vastità del problema
Dicevamo che il Governo dei Nove sembra trovarsi spiazzato (e, quello che è peggio, impreparato) di fronte alla peste. Tenere in mano il registro del Consiglio Generale (conservato in Archivio di Stato di Siena) fa paura: le registrazioni prima giornaliere si diradano, prima nei giorni, poi nelle settimane, poi si bloccano e l’ultima parola è lasciata a mezzo con un baffo di penna che gela il sangue. Poi più niente: l’amministrazione cittadina si blocca nei mesi in cui il contagio giunge all’apice: tra il 16 aprile e il 6 giugno i registri comunali contengono solo carte bianche. Quando l’attività amministrativa riprende si legge nel primo atto una premessa tragica, si dice che si scrive: “alla presenza dell’epidemia e soffrendo la mortalità”.
Siena, dunque, inizia ad adottare accorgimenti restrittivi, anche di tipo igienico e sanitario, solo a epidemia iniziata e il primo, reale, pratico problema che la città deve affrontare è dove seppellire tutte le persone che, quotidianamente, muoiono.
Così il 23 giugno (sono già trascorsi quasi due mesi) viene istituita una speciale commissione incaricata di affrontare l’emergenza medico sanitaria anche se ormai non rimane altra scelta che creare grandi fosse comuni nelle quali gettare i cadaveri coperti di calce
Prosegue la Cronaca di Agnolo: “e non si trovava chi seppellisse né per denaro né per amicitia e quelli de la casa propria li portava meglio che potea a la fossa senza prete, né uffitio alcuno, né si suonava campana; e in molti luoghi in Siena si fe’ grandi fosse e cupe per la moltitudine de’ morti, e morivano a centinaia il dì e la notte, e ognuno gittava in quelle fosse e cuprivano a suolo a suolo, e così tanto che s’enpiavano le dette fosse, e poi facevano più fosse”.
E Agnolo lo sperimenta sulla sua pelle perché amaramente dice: “E io sotterrai 5 miei figliuoli co’ le mie mani”.
Descrive le fosse comuni, per Firenze, Marchionne di Coppo Stefani con un paragone tanto crudo quanto efficace: “come se si minestrasse lasagne a fornire di formaggio”, come si servisse, dunque, una minestra di lasagne condita col formaggio. E Giovanni Boccaccio, il testimone più celebre per Firenze, scrive del pari: “Non come uomini ma quasi come bestie morivano”.
Ormai ogni valore è allentato: non c’è modo di dare sepoltura degna, scompaio i riti, non c’è più tempo, i funerali sarebbero comunque deserti. Divieti. Paura.
Addirittura, per evitare poi che la popolazione fosse travolta da una disperazione e da una depressione sempre maggiori, molti comuni decisero di vietare i funerali e, soprattutto, vietano di suonare le campane a morto poiché, per usare ancora le parole di Marchionne di Coppo Stefani, all’udirle “sbigottivano li sani, nonché i malati”. Anche perché, morendo decine, centinaia di persone al giorno il suono sarebbe stato ininterrotto.
Agnolo riferisce: “E non sonavano Campane, e non si piangeva persona, fusse di che danno si volesse, che quasi ogni persona aspettava la morte; e per sì fatto modo andava la cosa, che la gente non credeva, che nissuno ne rimanesse, e molti huomini credevano, e dicevano: questo è fine Mondo”.
Per la serie: quando non voler capire o sottovalutare o chiudere gli occhi (tanto per adesso mica siamo a Bergamo) potrebbe portare al disastro. Meditate, gente, meditate E, soprattutto, non fate come quei due stamani che prendevano il sole sull’asciugamano nel piazzale del condominio sotto le mie finestre, mentre intorno bambini giocavano tutti insieme (che non vuoi fargliela prendere una boccata d’aria?). Nel 1348 quando se ne accorsero fu troppo tardi, facciamo che nel 2020 la storia sia diversa.
Maura Martellucci