Lui era nato a Sinalunga, il 7 giugno del 1829 e studiò musica, tanto da diventare, a metà dell’Ottocento, Maestro di Cappella del Duomo. Il Lui di cui si parla era Pietro Formichi, autore della musica più cara ai senesi, la Marcia del Palio, che fa parte del DNA di chi è nato da queste parti e che, infatti, i bambini imparano a cantare come prima canzone, giusto subito dopo il “si sa che ‘un lo volete”.
Per la verità, Formichi praticava in tutt’altro modo il pentagramma: componeva pezzi sacri (come richiedeva il suo ruolo in cattedrale) e, per questi, era anche considerato un eccellente autore. Chi ha esaminato le sue partiture non ha avuto difficoltà a dichiarare che Formichi può tranquillamente reggere il confronto con altri celebri compositori di musica da chiesa a lui coevi. Era, peraltro, un pianista eccezionale e la sua produzione di musiche per pianoforte è sterminata. La sua bravura lo portò, oltre che al già ricordato incarico in cattedrale, anche a rivestire il ruolo di Maestro di Cappella e Direttore della Scuola di Canto dell’Opera di Provenzano, in un’epoca in cui, almeno dal Settecento, nel tratto di strada che va dal Duomo a Provenzano era passata e passava una musica che può, senza amore per l’enfasi, annoverarsi fra le più rilevanti a livello europeo.
La sua capacità artistica si espanse a tutto tondo: non solo nella musica sacra, ma anche in quella profana Formichi lasciò il segno. Fu direttore della Società Orchestrale Senese, concertatore e direttore d’orchestra per i teatri cittadini, direttore della Banda Musicale Senese e maestro della Scuola di Musica del Comune.
Le sue capacità gli vennero riconosciute: in vita godeva della generale stima dei musicofili e dei critici. Rinaldo Morrocchi (autore, a fine Ottocento, di una preziosa “schedatura” dei musicisti senesi dalle origini alla sua epoca) lo definisce “distinto compositore” e, proprio lui, ricorda che il Formichi fu, per il suo lavoro di artista, insignito della croce di Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia.
Ebbene: di tutta la sua vasta e pregevole produzione musicale, oggi, non se ne frega più niente nessuno (ed è una vergogna, se posso chiosare) perché la sua fama è legata, come s’è detto, alla Marcia del Palio che, dal punto di vista musicale è un divertissement. Il fatto è che a fine Ottocento c’era da mettere una pezza a quell’indecente colonna sonora che accompagnava il Corteo Storico, fatta di musichette popolane, polke, canzonette e altre pacchianate da fiera paesana, perfettamente intercambiabili con quelle di qualsiasi fiera di maiali o sagra della fett’unta e del salcicciolo. E il Formichi si applicò a scrivere una musica che potesse apparire compatibile con il rinnovato complesso estetico della coreografia paliesca.
Il brano, in teoria, avrebbe dovuto rispettare la contestualizzazione “medievale” che, all’epoca già aveva assunto il Corteo Storico, sull’onda della fòtta del medievale che aveva contagiato architettura, letteratura, pittura, opera lirica, estetica, feste e cervelli. Tuttavia, anche un orecchio non esercitato e ignaro di filologia musicale percepisce subito che, nella Marcia del Palio, di medievale c’è di molto poco e che anche lei risulta figlia di un Medioevo di cartapesta: guardate gli strumenti che la eseguono. Ci sono le chiarine, e va bene, quelle nel Medioevo ci stanno in pieno. Poi, però, ci sono gli strumenti che interpretano la parte dopo gli squilli. E qui si scazza di brutto. Ci sono le trombe a pistone: le trombe a pistone nascono nel primo ventennio dell’Ottocento. Ci sono i flicorni: ora, i flicorni per come li vediamo sfilare nel corteo, sono frutto dell’elaborazione di Adolphe Sax negli anni Trenta dell’Ottocento. Ci sono gli strumenti della famiglia dei bassi-tuba: la prima tuba venne costruita a Berlino da Johann Moritz nel 1836. Cioè, sono strumenti musicali elaborati quando il Medioevo era un pezzetto che era finito. Ma non importa, né – men che meno – importava allora. Era un brano gradevole, che piacque e piacque anche di più quando Idilio dell’Era (nome d’arte del sacerdote don Martino Ceccuzzi, nato nel 1904 e morto nel 1988) vi applicò i versi che tutti oggi cantiamo. Il prodotto complessivo finale risultò vincente, convincente e coinvolgente, oltre che estremamente emozionante e, oggi, depurato dall’originale effetto “marcetta”, anche solenne da quando il maestro Mario Neri, nella seconda metà del ‘900, lo ristrumentò e lo “rallentò”.
Formichi, paradossalmente, rimediò, con la Marcia del Palio una bella smusàta da Richard Wagner al quale, durante il soggiorno senese dell’illustre maestro (dal 24 agosto al 30 settembre del 1880, presso la villa del barone Sergardi a Torre Fiorentina) il maestro senese si premurò di inviare lo spartito della Marcia del Palio per avere un suo commento. Wagner – che era un immenso della musica, ma che, almeno in quest’ occasione, si dimostrò anche un immenso snob cafone – rimandò al mittente la partitura senza una riga di risposta o di commento e senza nemmeno un messaggio verbale per l’autore. Si, va bene, che era impegnato ad andare in deliquio in Cattedrale davanti alle architetture interne e a farsi venire in mente, di fronte a esse, il finale del Parsifal (una roba che fa venire la pelle d’oca anche a un torraiolo, da quant’è emozionante), ma almeno due righe, un commento… al limite un “maestro Formichi sa che ci deve fare con questo spartito, vero?” (l’immortale frase di Totò nel film di Steno, 1962, “I due colonnelli” era ancora di là da venire). Invece niente.
Non si sa come l’abbia presa il Formichi, se ci sia rimasto male o abbia scrollato le spalle, ma è un fatto che di certo non si scoraggiò. La Marcia del Palio aspettò il momento del suo debutto e quel momento arrivò nel 1885 quando fu eseguita per la prima volta in Piazza (ah: da qualche parte si legge che i senesi la sentirono per la prima volta nel 1887, quando a Siena arrivarono i reali d’Italia. Ci sono testimonianze che, invece, dicono che l’esordio è databile già due anni prima. Io mi attengo a quest’ultima tradizione che ho riportato in “Il Palio di Siena. Una festa italiana”, edito da Laterza, pp. 151-152. Lo avete letto, vero?).
Per inciso: gli squilli del Carroccio, invece, risalgono al 1904 e sono opera di Salvatore Giaretta. Così, tanto per saperlo.
Formichi morì nel 1913, ma la sua Marcia del Palio lo ha reso immortale perché è diventata un’icona di Siena, che Siena ha, peraltro, dovuto difendere con le unghie e con i denti. Nel 1936 il governatore italiano in Libia, Italo Balbo, chiede al Podestà (che rimbalza l’imbarazzante richiesta al Magistrato delle Contrade) la partitura della composizione, perché la vuol far eseguire a Tripoli in occasione dei festeggiamenti per la conquista dell’impero d’Africa. Un infastidito rettore del Magistrato, il conte Guido Chigi Saracini (che farà per tutto il periodo del fascismo salti mortali per preservare il Palio e le Contrade dai progetti “annessionistici” e omologatòri che il regime non nasconde nei confronti della festa senese) risponde che, no, spiacenti, il Magistrato non possiede lo spartito della Marcia perché non sono suoi quelli che oggi chiameremmo diritti d’autore. E aggiunge, con garbata ma decisa vis polemica, che Siena non può permettere che le musiche del Palio si eseguano in luogo non deputato perché “il loro spirito [è] strettamente connesso al rito che viene celebrato nel Campo di Siena”. Sottinteso: se a Balbo gli piace la Marcia del Palio, la venga a sentire qui da noi (anche questo lo scrivo nel mio 12, a pagina 218-219. Ommadonninasantaebenedetta ma che vi devo ricordare tutto? Lettura superficiale, eh, bimbi?).
Non basta: altre manifestazioni storiche che, proprio in età fascista rinascono in Italia, s’impadroniscono o cercano di impadronirsi della musica paliesca del Formichi e, ogni volta che ciò accade, parte regolarmente un’imbufalita (e meno diplomatica di quanto non fosse, forzosamente, quella diretta al grande gerarca) lettera del conte Chigi per protestare nei confronti di questo scippo.
Scippo che, peraltro, è stato reiterato altre volte anche nel dopo-guerra, quando la Marcia è stata applicata a feste non senesi.
Chissà: il Formichi si sarà rivoltato nella tomba. O forse, più probabilmente, avrà sorriso compiaciuto della fortuna che la sua musica aveva suscitato e continua a suscitare. Sono convinto che, se si riaprisse il suo sepolcro, sarebbe forse possibile trovare un venerando scheletro con gli ossicini del dito medio alzati nei confronti del signor Wagner.
Duccio Balestracci