Questa settimana, per la rubrica delle parole perdute dei nostri nonni, mi addentro su un sentiero che spero non sia “una selva oscura ché la diritta via era smarrita” per dirla col “guelfaccio” (fiorentino) Dante che va tanto di moda in questi giorni per i suoi 700 anni dalla morte. Non vorrei fare una “poponata”(una bischerata) se nel giorno della Domenica delle Palme parlerò di altra ricorrenza della Chiesa. Questo evento, infatti, mi ha fatto tornare alla mente l’ultima volta che ho visto la “pivialata” (la processione del Corpus Domini) con il ricordo amorevole per don Dante Butini, parroco dei Tufi, che “valeva cent’ori” (persona dai grandi pregi), scomparso ormai da diversi anni. Avevo sì e no l’età del mi figliolo. Dietro alla sfilata notai dei bei “pottaioni” (vanesi) insieme al “Povero” (il custode della chiesa) e a certi “popo’ di troiai” (un insulto fatto con amore) vestiti “tutti un frinzello” (con abiti grinzosi) che nonostante io fossi “più zozzo d’un baston da pollaio” (praticamente insudiciato) facevo la “mì sporca figura” (stare bene nonostante la non perfezione). Era già buio, al passaggio del corteo vidi parecchi “cittini” (bambini) che tenevano in mano un “moccolo” (candela) ed io, lì fermo immobile che di “moccoli” (in questo caso una bestemmia e il muco che esce dal naso) l’avevo pronti ben due, rimasi a bocca aperta quando la mì mamma mi raccontò nel frattempo del Miracolo delle Sante Particole. Ne rimasi estasiato e l’anno dopo, tutto “agghingato” (in questo caso vestito) da “naccherino” (bambino o giovane con indumenti belli e nuovi) partecipai anche io alla processione con la presenza straordinaria dell’arcivescovo Castellano che comunque lo “vidi sbalugginà” (vederlo appena) per poco. Poi in chiesa, aiutato dalla perpetua Primettina, volli mettere un lumino (quelli rossi che in genere si mettono ai morti) in ricordo dei miei nonni defunti e “per le por’anime” (in suffragio dei contradaioli morti). Ma per accendere il “lucignolo” (lo stoppino) mi bruciai la camicia facendo fare ai miei genitori “il guadagno di Pottino” (in questo caso buttare via i soldi). Ma quella esperienza mi ha segnato profondamente nell’anima e mi piacerebbe assistere di nuovo a questa bella tradizione. Magari con il mio “Ciocio” (si dice di un bambino caro e amorevole) “a saccaceci” (sulle spalle) per fargli vivere un momento di forte identità senese. Del resto Siena, nonostante ciò che dicono quelli che dovrebbero fa la fine che si augurava Gostino (personaggio immaginario inventato dallo scrittore senese Bruno Tanganelli detto Tambus, che parlando da solo con il colonnino di Piazza ripeteva: ‘Chi vive Siena e ne dice male dovrebbe fa la fine del maiale’), è una città che ti riserva sempre emozioni e qualche cosa di bello. E soprattutto ora che è primavera. In campagna ad esempio stanno per arrivare “le pere della “Chiocciola” (pere di colore giallo e rosso) e qualche “verdacchia” (un tipo di susina) mentre per le vie del centro speriamo tornino le “matricole” (gli studenti della goliardia senese) a far festa come da tradizione con le loro macchine “della ditta Razzi, Mozzi e Barroccini Sfatti” (roba vecchia e scassata). Il Palio? Lasciamo sta questo “doccio” (tegolo) che ci s’è “piantato fra capo e collo” (figurativo, come fossimo colpiti da qualcosa di pesante che ci fa male), ne riparleremo. Come minimo c’è da ridì almeno una volta “Per Sant’Ansano uno scaldino sotto e uno in mano” (si dice il 1 dicembre, ricorrenza del patrono di Siena che segna per i senesi l’inizio del nuovo anno contradaiolo e dell’inverno anche se per i contradaioli che non vincono il Palio l’inverno inizia subito dopo la Carriera d’agosto o addirittura quella di luglio se la contrada non viene tirata a sorte).