Il Dna può essere lo strumento per predire quanto sia l’effettivo livello di rischio di infezione da covid-19 e per capire come intervenire attraverso cure specifiche. Vuole portare anche a questo la ricerca “Common, low‑frequency, rare, and ultra‑rare coding variants contribute to covid-19 severity” che è stata pubblicata sulla rivista internazionale “Human Genetics”.
Il lavoro è stato guidato dalla professoressa Alessandra Renieri del dipartimento di Biotecnologie mediche dell’Università di Siena e direttrice dell’unità Genetica medica dell’Aou Senese. Hanno dato il proprio contributo anche scienziati dell’ambito dell’intelligenza artificiale del dipartimento di Ingegneria dell’informazione e Scienze matematiche dell’Università di Siena , oltre a molti medici dell’policlinico senese, dell’Asl Toscana sud est e di altri 40 nosocomi italiani del consorzio Gen-covid. Non solo però: hanno collaborato anche studiosi e medici di Germania, Inghilterra, Svezia e Canada.
L’obiettivo della ricerca è stato quello di capire quali sono i geni “difettosi” a causa dei quali alcune persone accusano una forma grave di malattia da coronavirus. L’approccio integrato di studiosi di diverse discipline ha portato quindi a conoscere in maniera più precisa i livelli di rischio perché l’analisi del Dna(fatta con un potentissimo sequenziatore), con l’aiuto di data science e intelligenza artificiale, permette di individuare chi ha più probabilità di contrarre la malattia in modo grave.
Avere a disposizione queste informazioni permette inoltre di intervenire con maggiore tempestività e in maniera personalizzata attraverso un terapia farmacologica più adatta.
“Attraverso la genetica dell’ospite, cioè di ciascuno dì noi – commenta Alessandra Renieri – si possono fare previsioni su quale sarà la gravità dell’infezione e quali sono i punti deboli per poi offrire nel prossimo futuro una terapia personalizzata. Cioè curare in maniera diversa pazienti diversi a seguito della tipizzazione della propria genetica e non tutti con lo stesso farmaco. Il modello di approccio proposto dalla ricerca potrebbe infatti fornire informazioni utili per lo sviluppo di strumenti diagnostici e terapeutici-prosegue-. Lo studio delle varianti dei nostri geni – comuni, a bassa frequenza o rare – individuate a partire dall’elaborazione dei dati di sequenziamento di individui positivi, sono state utilizzate per definire un modello interpretabile di apprendimento automatico per predire la gravità di covid-19″.
“Finalmente si comincia a parlare della genetica dell’ospite anche nei mezzi di diffusione non scientifica – continua Renieri -. La principale differenza di gravità di malattia infatti non è legata alle genetica delle varianti, ma alla genetica dell’ospite, cioè del paziente. Anche un nuovo lavoro scientifico di un consorzio americano pubblicato recentemente su Nature mette in evidenza la parte immunologica del contributo dell’ospite, che è di ampia natura, come dimostrato dallo studio internazionale a cui ha partecipato il consorzio Gen-Covid, nell’ambito dello Human Genetics Initiative”.
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