Oggi, Giorno della Memoria, voglio raccontare una piccola grande storia. Forse non molti sanno chi è l’autore della musica dell’inno della gloriosa Associazione Calcio Siena, o Robur se preferite. Si chiamava Mario Valensin, ed era un valido dottore e virologo, nonché medico sociale della squadra bianconera, che si dilettava anche di musica. Suonava benissimo il violino, fece parte anche dell’orchestra comunale senese, scriveva canzoni e poesie. E così si ritrovò a musicare quelle parole che, anche se oggi ci fanno un po’ sorridere, ci inorgogliscono ogni volta che il Siena scende in campo: “S’avanza l’undici del Siena, che il cor c’infiamma, che c’incatena…”.
Mario Valensin, laureato in Medicina nel 1928, lavorò all’ospedale di Santa Maria della Scala fino al 1932, quando entrò all’Istituto Sclavo di cui fu vicedirettore fino alla pensione. Il dottor Valensin apparteneva ad una nota famiglia ebrea della città (in realtà Levi, che cambiarono il cognome chissà quando, per evidenti motivi razziali): suo padre Gusmano e suo nonno Egisto erano apprezzatissimi sarti, proprietari di un rinomato negozio di stoffe in via di Città. Non erano molto osservanti delle pratiche religiose della loro fede, giusto lo stretto necessario; erano poco ortodossi soprattutto in campo alimentare… Ma questo non servì certo ai Valensin ad evitare le conseguenze delle infami leggi razziali, promulgate nel 1938. Finché, dopo l’8 settembre del 1943, la situazione non divenne repentinamente tragica. Già spostatasi in una villa nei pressi di Siena durante l’estate (il dottor Valensin abitava nell’Istrice), la famiglia di Mario venne avvertita dalla moglie di Achille Sclavo, precipitatasi in calesse alle 6 di mattina, dell’imminente rastrellamento degli ebrei senesi.
Costretti a fuggire e a nascondersi in posti diversi, i Valensin salutarono per l’ultima volta il vecchio sarto Gusmano, già malato, con i baffi intrisi di lacrime. La moglie e i figli di Mario vennero nascosti per più di 8 mesi in una cella del convento di Monastero, dove le monache si distinsero per genuina carità cristiana. Si poteva uscire solo di notte, quando Mario, che continuava a lavorare di nascosto all’Istituto Sclavo, veniva a trovare la famiglia condotto in calesse – a rischio della vita – dal capo stalliere Renato Bindi, da cui il dottor Valensin era anche generosamente ospitato. Anche altre furono le persone che, disinteressatamente, aiutarono i Valensin a scampare alla deportazione: i primi contadini che li ospitarono, un oscuro boscaiolo presso il quale ripararono durante le perquisizioni dei nazifascisti al monastero, medici che assistettero gli anziani della famiglia (Gusmano morì all’ospedale, nella primavera del ’44), i colleghi dello “Sclavo”. Terminata la guerra almeno a Siena, la famiglia Valensin potette finalmente riunirsi, nella commozione del mortale pericolo scampato, ma portando per sempre impressi nell’anima i ricordi tremendi e le angosce inaudite di quei mesi tragici. E noi, con loro, non vogliamo dimenticare quanto è successo. Perché non debba accadere mai più.
“Su! Forza, Siena! Dove sei tu c’è la tua foga bella…”.
Giovanni Mazzini
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