Mann, nato a Lubecca nel lontano 1875 (morirà a Zurigo nel 1955) riesce, ancor oggi, a catturare l’attenzione del lettore in una fascinazione che solo i classici e le grandi penne riescono ad innescare. Per la sua attenzione alla realtà circostante, per la precisione scientifica delle osservazioni e il procedimento analitico della narrazione Mann con il suo “sguardo da poliziotto” si ricollega, da un lato, alla poetica del naturalismo e, dall’altro, a quello del simbolismo europeo, andando oltre ogni tradizione attraverso la ricerca dei valori e di antinomie di valori in cui inquadrare la sua interpretazione del mondo.
La storia, ambientata nel chiuso di un sanatorio e vissuta dal protagonista Hans Castorp, guarda i diversi aspetti della vita, compresi quelli spirituali. Meglio dire, però, che Hans è solo l’involucro materiale tramite il quale dar voce alla malattia intesa come creatrice di valori interiori, come anarchia e degenerazione. In estrema sintesi è l’analisi del disfacimento di tutta una civiltà. Il pericolo di una nuova barbarie è ben presente in Mann, considerato il più grande scrittore del Novecento (sarà Premio Nobel della letteratura nel ’29), così come i suoi conflitti interiori rispecchiano quelli che agitarono il suo Paese. Come ha sapientemente, e con passione, spiegato Luca Crescenzi, curatore di questa ultima edizione (è professore di Letteratura tedesca all’Ateneo di Pisa) <<Mann pone al centro del romanzo un genio melanconico: Hans Castorp che per comprendere la vita deve, prima, imparare cos’è la morte. Un percorso di crescita faticoso come scalare una montagna, che lo farà uscire dall’infanzia solo dopo aver scoperto cosa c’è dentro di lui e, quindi, dentro l’umanità>>. Innumerevoli i ricorsi al simbolismo usati dall’autore e l’importanza data alla sfera dell’inconscio dal quale emergerà la coscienza dell’adulto, capace di vivere la vita sia nel reale che nell’onirico. Secondo il critico letterario e saggista Filippo La Porta <<nel lavoro di Thomas Mann troviamo una teoria dell’esperienza individuale, intesa come esperienza della propria impotenza. L’umanità subisce gli eventi della vita che è mutevole, senza essere modificabile, ma non per questo si deve cedere alla disperazione, perché dall’esperienza, come passività, si acquista sapere>>. <<Un romanzo, per Romano Luperini, docente di Teoria della Letteratura all’Università di Siena, che ha un tessuto allegorico e un ardito simbolico, in cui la rappresentazione della montagna, che la si voglia considerare incantata o magica, serve per parlare di altro: la cultura e la crisi di una generazione, che non trova risposte nel senso ultimo della vita>>.
Resta il fatto che Thomas Mann emerge come un intellettuale del suo tempo. Così lo ha delineato nell’intervento di chiusura di Luca Verzichelli, Preside della Facoltà senese di Scienze Politiche, <<fondamentale il suo rapporto con Freud e con a politica del ‘900 alla quale non risparmierà forti critiche. Con la nascita del nazismo sarà esule a vita. Importante, inoltre, il suo tentativo di leggere certi modelli di pensiero e certi codici, come anche quelli linguistici>>.
Sicuramente La montagna magica rappresenta un grande romanzo di idee dove, con abile maestria letteraria, si fronteggiano le illusioni del progresso borghese e l’irrazionalismo neoromantico. Ne è stato un esempio la lettura di alcuni brani da parte di Paola Lambardi.
Oltre mille pagine, ma con la sintesi sarebbe stato impossibile scrivere un libro che, al tempo stesso, è storia politica e sociale. Storia di un tempo – quello di Mann e, per certi aspetti anche nostro – intervallata da riflessioni psicologiche e filosofiche, indispensabili per dar vita ad un costrutto capace di unire il classicismo all’innovazione, senza, però, a dispetto del suo tempo, farsi catturare dal radicalismo formale delle avanguardie.
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