E se il sole, quando comincia a declinare dopo il solstizio d’estate, non torna più a splendere? E se la primavera decide che non arriva più?
E se il dragone mangia il sole o la luna quando c’è un eclisse? Per millenni gli uomini hanno misurato la loro fragilità guardando con apprensione in alto e in basso: verso il cielo dove si susseguono le costellazioni che marcano il ciclo delle stagioni, e verso la terra, con la quale ogni semina significa scommettere se vorrà restituirci il seme che le affidiamo.
Natura e cosmo non sono solo quel che cantano i poeti: sono entità con le quali occorre stipulare un contratto per averle dalla nostra parte, perché, che ci piaccia o no, l’uomo non è il loro signore, come invece amiamo pensare (siamo onesti: il “Genesi”, con Adamo incaricato da Dio a dare il nome alle cose e agli animali perché tutto il Creato sarebbe stato pensato in funzione sua, c’è un pochino scappato di mano, eh!).
Così, da sempre, l’uomo “nudo” (come lo definisce Lévi-Strauss) trasforma il suo calendario dei giorni e dei mesi in uno scadenzario dell’inquietudine, e ritualmente, anno dopo anno, generazione dopo generazione, compie quei gesti, recita quelle preghiere, invoca quelle presenze che lo aiuteranno a superare la paura.
Per questo, si purifica, l’uomo nudo, dei suoi peccati, ritualmente, attraverso capri espiatori, con sacrifici cruenti di animali, talvolta perfino di suoi simili; caccia dalla comunità le presenze malefiche; inventa le feste per superare, insieme agli altri della sua comunità, i momenti critici; elargisce doni ai bambini (metafore della vita futura) magari facendoglieli recapitare da entità sovrannaturali e magiche; invoca la fertilità della terra attraverso la fecondità delle donne, con cerimonie che mimano l’aggressione sessuale (come nei lupercali romani o nelle cerimonie mongole) o che, l’atto sessuale, lo prevedono realmente, perché lo sperma è simbolo e metafora di rinascita anche della natura. Così gli esquimesi, a inizio dell’inverno, invocano il ritorno della stagione calda con orge che coinvolgono tutta la comunità, senza discriminazione di età o di legame di parentela, mentre, a loro volta, i giovani cinesi sono esortati ad accoppiarsi sull’erba per impetrare il rigoglio della nuova vegetazione.
Si attraversa l’anno accompagnati da esistenziale incertezza; si vivono le stagioni non facendo altro che elaborare gli strumenti per superare la paura, magari, nell’autoconvinzione, almeno noi di procedenza culturale giudaico-cristiana, di poter disporre della natura a nostro piacimento. Altre culture hanno sempre avuto altra consapevolezza: l’uomo è “una” componente, fra le altre e pari alle altre, e, nei confronti della natura, è obbligatorio contrattare il prelievo che se ne fa e che non deve eccedere rispetto al bisogno di sopravvivenza, altrimenti, la natura ci punisce.
Fino a non tanto tempo fa, noi tronfi e autoreferenziali occidentali, quelle culture le definivamo “primitive”. Ecco, appunto.
Parleremo di questo, presentando il mio “Attraversando l’anno. Natura, stagioni, riti” (Il Mulino), giovedì 19 all’Accademia dei Fisiocritici alle 17.30. E a parlarne con me saranno un sacerdote, don Enrico Grassini, un etnoantropologo, Florio Carnesecchi, e una giornalista, Giovanna Romano.
Duccio Balestracci
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