Università, laurea a Steve McCurry: “In Palestina la fotografia dona la voce a chi non ce l’ha”

La Palestina come ferita aperta del presente, specchio delle contraddizioni di un mondo che fatica a imparare dalle proprie guerre.

È da qui che Steve McCurry è voluto partire, nel suo confronto con i giornalisti, nel giorno in cui l’Università gli ha conferito la laurea magistrale ad honorem in Antropologia e linguaggi dell’immagine.

“La fotografia non ferma le guerre, ma può dare voce a chi non ce l’ha – ha detto McCurry –. Le immagini servono a informare, a rendere più consapevoli, a spingerci a fare la nostra parte, anche nel piccolo, qui nel cosiddetto primo mondo”. Un pensiero che il maestro americano ha legato al dramma palestinese, ma che attraversa tutta la sua produzione: dagli scatti in Afghanistan alla bambina dagli occhi verdi diventata simbolo universale di fragilità e resistenza.

La cerimonia si è aperta con un minuto di silenzio chiesto dal rettore Roberto Di Pietra per quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e nelle acque internazionali alla Global Sumud Flotilla.

Nel suo intervento, Di Pietra ha ricordato come le fotografie di McCurry, a partire dalla celebre Afghan girl, abbiano raccontato guerre, conflitti e sofferenze, fissandole nella memoria collettiva. “Molte di queste immagini – ha sottolineato – sono legate a una delle attività che all’essere umano riescono meglio, ovvero la guerra e la violenza. Quella stessa violenza che in questi anni ha significato il crudele massacro del popolo palestinese e il suo inaccettabile genocidio”.

Il direttore del Dipartimento di Scienze sociali, politiche e cognitive, Francesco Marangoni, ha dato lettura delle motivazioni del riconoscimento, mettendo in risalto il contributo di McCurry alle questioni antropologiche del nostro tempo: “Nei suoi scatti si colgono le contraddizioni del mondo contemporaneo – ha detto – dal rapporto con la natura agli scenari distopici, dalle condizioni di vita quotidiane alle derive della violenza. La qualità estetica diventa per lui uno strumento primario per impattare sull’immaginario globale e mediatico, portando all’attenzione di un vasto pubblico angoli di mondo che altrimenti resterebbero invisibili”.

La lectio magistralis, intitolata “La vita dietro l’obiettivo”, si è trasformata in una conversazione intima con la curatrice e amica Biba Giacchetti. Un dialogo che ha attraversato la storia di McCurry: dagli esordi in Afghanistan, quando nascose i rullini cucendoli nei vestiti per portarli in salvo dall’invasione sovietica, al passaggio epocale dall’analogico al digitale. Il fotografo ha riflettuto sulle sfide poste dai social e dall’intelligenza artificiale, mettendo in guardia dal rischio di snaturare la fotografia documentaria: “Un algoritmo può creare immagini perfette, ma non restituirà mai l’autenticità di chi soffre o di chi spera”.

Nella Laudatio, il professor Fabio Mugnaini ha definito McCurry “un tessitore di relazioni impossibili, capace di tradurre in immagine ciò che un popolo vive, dalle rughe di un volto segnato al sorriso improvviso in mezzo alla polvere”. La sua fotografia, ha aggiunto, “non è semplice cronaca, ma narrazione. Un dialogo che continua nel tempo, perché chi guarda oggi quegli scatti viene a sua volta guardato da chi vi è ritratto”.

Marco Crimi