Il criminologo e i delitti del mostro di Firenze: un’analisi sul lavoro di Sienanews ci ha fatto scoprire che abbiamo ragione su alcuni punti. E ci dà la nuova lettura, quella del profilo geografico
Nell’immaginario collettivo dei nostri tempi, influenzato per lo più dalla forza dirompente della televisione e dei social, siamo abituati a rappresentare il criminologo come una sorta di deus ex machina, che interviene sulla scena a risolvere i più misteriosi ed efferati crimini violenti, grazie a ragionamenti chiari e lineari e a strumenti “fantascientifici” in grado di rispondere alle domande più complesse.
Va detto che quest’immagine non corrisponde del tutto al vero; il criminologo è per lo più un osservatore e uno studioso della realtà e delle dinamiche con le quali si estrinseca il fenomeno criminale all’interno della società, la cui funzione principale dovrebbe essere quella di catalogare i fatti per poter poi attuare una prevenzione atta ad impedire il ripetersi di certi eventi. L’interdisciplinarietà è caratteristica principale del criminologo, la scienza empirica la madre imprescindibile di ogni tentativo di spiegazione criminologica.
Da questo punto di vista, l’analisi di un fenomeno complesso come quello del Mostro di Firenze è di certo intellettualmente stimolante, ma altrettanto pericolosa, dal momento che il rischio di allontanarsi dalla realtà e dai fatti concreti è altissimo, e va di pari passo con la voglia irrefrenabile di trovare delle spiegazioni plausibili per una vicenda che ancora scuote gli animi e genera un interesse morboso pari forse alla storia di Jack lo Squartatore.
Come deve porsi un criminologo di fronte a questa storia che pare essersi conclusa, quantomeno nell’aspetto più brutale delle uccisioni, dopo ormai più di trenta anni? Il punto di partenza e l’unica base per le ricerche deve essere il dato concreto (foto, perizie, documentazione giornalistica, osservazione dei luoghi) studiato con metodo scientifico, epurato da ogni condizionamento mentale e da ogni suggestione che ha accompagnato la vicenda.
Partiamo dall’inizio, dal delitto del ’68, che verrà collegato alla scia delle uccisioni del mostro solo successivamente, precisamente nel 1982, dopo il quinto omicidio. Gli studiosi in realtà ancora si dividono nel classificare questo duplice omicidio come di certa attribuzione al mostro: vediamo un attimo di fare chiarezza su alcuni punti e sul perché, invece, si propende per un sicuro collegamento di esso coi delitti successivi.
Il modus operandi (tutto ciò che l’assassino compie durante il crimine) e le circostanze di tempo e luogo. E’ abbastanza evidente che ogni delitto sia l’uno la fotocopia dell’altro: la scelta di colpire delle coppiette nei momenti immediatamente precedenti un rapporto sessuale, le notti di novilunio, quando dunque la visibilità è scarsa, la decisione di uccidere sempre nei fine settimana, tranne per il quarto delitto (il secondo del 1981), avvenuto però il giorno prima di uno sciopero generale e dunque considerato come un prefestivo anch’esso, l’immediata eliminazione dell’uomo, ostacolo alla realizzazione delle fantasie del mostro, le problematiche connesse al rapporto con la figura femminile, sulla quale il mostro infierisce anche con un coltello, operando le tristemente note macabre escissioni.
Tali delitti sono compiuti da una sola persona, un serial killer del tipo organizzato, che resta sempre lucido e ha ben presente in mente uno schema di come devono svolgersi i fatti, visti i tempi precisi e le azioni scandite in maniera identica, e data la reazione fredda e adeguata agli imprevisti per sfuggire alla cattura senza lasciare nessuna traccia. Tra l’altro la conoscenza dei luoghi da parte dell’assassino deve essere ottima: la sicurezza nei movimenti e negli spostamenti è propria di chi conosce a menadito la zona; scegliere le notti senza luna se da una parte favorisce l’intento omicidiario, dall’altra rende più difficili le azioni.
La perizia e l’efficacia del mostro nel compiere la sua opera di morte subiscono migliorie nel corso della sua carriera criminale, basti pensare che nel delitto del 1974 fa scempio della donna accostandole un tralcio di vite, scempio ben meno “evidente” di quelli che subiranno le vittime femminili successivamente. Il periodo di raffreddamento tra un delitto e l’altro, periodo durante il quale il mostro non uccide, è sempre più breve fino al punto di arrivare ad uccidere una volta all’anno.
La pistola: una Beretta calibro 22 L.R., modello 73 o 74 (prodotta nel 1959). I proiettili rinvenuti nelle scene del crimine sono tutti marchiati con la lettera H, che verrà sostituita nel 1981 dalla W, quindi è certo che i proiettili fanno tutti parte di uno stesso lotto in produzione fino al 1981.
Nel momento dello sparo il grilletto arma il cane, che è una componente di quasi tutte le armi da fuoco, ed è quello che, tramite altri due passaggi, fa partire il colpo. Ebbene il cane di questa particolare Beretta ha un difetto; è spostato rispetto al centro, quindi, quando tocca il proiettile, lascia un segno unico e inconfondibile, che dal punto di vista scientifico-balistico non lascia spazio ai dubbi: l’arma utilizzata per tutti e otto i delitti è sempre la stessa. La storia della pistola è già stata ampiamente e correttamente spiegata in un articolo precedente, per cui quello che qui si può aggiungere è che se la mano del mostro non è la medesima del delitto del 1968, deve essere comunque qualcuno che vi ha assistito o l’ha vissuto anche indirettamente, e che è venuto in possesso dell’arma a omicidio compiuto, operando un punto di rottura nella propria psiche e sviluppando la necessità di uccidere e di compiere determinati rituali; ipotizzare un passaggio di proprietà della pistola e uno stesso disturbo paranoico in capo a soggetti diversi è difficile, a meno che questi soggetti non fossero realmente in stretto contatto.
Ma come è possibile che solo nell’82 si attui un collegamento? E soprattutto com’è che gli inquirenti restano ciechi di fronte a cose così evidenti?
Diciamo che, come più o meno recenti fatti di cronaca dimostrano (il caso Meredith Kercher, Yara, il delitto di Via Poma, ma in una certa misura anche la strage di Erba), spesso vige un certo pressapochismo nel condurre le indagini.
Le foto dell’epoca dimostrano come le scene del crimine fossero zeppe di persone, forze dell’ordine, giornalisti, curiosi, sebbene già da tempo (Bertillon e Locard nella Francia del 1800, Ottolenghi, fondatore della Scuola di Polizia Scientifica in Italia, nonché docente nella facoltà di Giurisprudenza di Siena agli inizi del 1900; addirittura a livello legislativo sopravvive una circolare, la Circolare Fani, n°1667 del 1910, relativa agli accertamenti dei reati e rivolta agli operatori della scena del crimine) si teorizzasse che la contaminazione è la strada migliore per perdere e confondere tracce, e conseguentemente perdere e confondere i colpevoli.
Oltre a questo comportamento notevolmente dannoso, sia le sentenze che la cronaca dell’epoca riportano tantissimi esempi e particolari mai provati né confermati, richieste di profiling da Quantico (avete presente Criminal Minds? Ecco loro, che di certo difficilmente potevano percepire e contestualizzare la realtà in cui operava il mostro), suggestioni dovute alle classiche tesi complottiste, scelte di comodo su quali fonti ritenere idonee, e via dicendo… Perdere la bussola in questo, come negli altri cold case, è stato fatale. Trovo sempre doveroso ricordare che persone hanno perso la vita, famiglie hanno ugualmente perso la voglia di vita, e chi ha il compito di svelare la verità dovrebbe sempre operare con rispetto e impegno massimi. Non è leggenda la storia che su una delle scene sia stata trovata un’impronta di scarpa che si è poi scoperto essere di uno dei tanti appartenenti alle forze dell’ordine che bazzicavano il luogo del delitto durante i sopralluoghi; una perdita di tempo e analisi evitabile.
Ma si può rimediare a questi errori? La criminologia e la criminalistica (la scienza che studia le tracce sulla scena del crimine) hanno portato nuovi strumenti a livello investigativo: ad esempio il geographical profiling, teorizzato da David Canter, padre della psicologia criminale e investigativa. Questo sistema, estremamente complesso, studia i luoghi dove sono stati commessi delitti seriali, le possibili vie di fuga, la presenza di possibili rifugi, cercando di delimitare l’aria dove potrebbe trovarsi la residenza del criminale. Per l’Unabomber italiano ad esempio è stato fatto uno studio in tal senso.
L’autopsia psicologica delle vittime, altro interessante spunto di indagine; questo metodo si basa su un assunto molto semplice: non conosciamo il colpevole per cui stilare un profilo di personalità è sempre un azzardo. Però di certo conosciamo le vittime e il loro ambiente, sui quali invece è possibile operare studiandone la personalità e le conoscenze: per di più se è vero che molte delle vittime femminili avevano lamentato una sorta di “persecuzione” da parte di persone ignote.
Per quanto riguarda invece lo studio dei delitti, è estremamente interessante vedere le peculiarità di alcuni di essi: il primo, che ha delle analogie con l’ultimo che poi vedremo; l’ultimo che è dato per pacifico sia stato compiuto un giorno prima di quando invece si è sempre pensato, e ciò grazie alle larve che sono state rinvenute sul cadavere della donna (la scienza in questione è l’entomologia, per gli amanti del primo CSI, era la specializzazione di Gil Grissom) e al tentativo di occultamento, probabilmente per far pervenire agli inquirenti la lettera col lembo di seno prima del ritrovamento dei corpi; l’omicidio dei due ragazzi tedeschi. Siamo poi così sicuri che una personalità organizzata come quella del presunto mostro si sia sbagliata in questo caso?
Giulia Morandini
Criminologa
Università La Sapienza Roma