Vincenzo Galati, Il redentore

Dovessi definire “Il redentore” ricorrendo a una figura retorica, lo chiamerei senza dubbio il romanzo dell’antitesi. Tutto nel libro di Vincenzo Galati, infatti, è doppio, opposto, contrapposto. Come l’atmosfera, carica di promesse e di luce quando avvolge la città di Siena (“L’alba primaverile tinge Siena di sfumature delicate, mescolando arancione e rosa in un cielo che promette un’altra giornata calda”), soffocante e pesante quando preannuncia l’irrompere del Male (“Apre gli occhi, ma vede soltanto buio. L’oscurità, però, non è compatta come quella dietro le sue palpebre. Riesce a distinguere una striscia grigia: la finestra, forse”) e, ancor più, quando si fa testimone del suo scatenarsi. Come il ritmo della narrazione, lento, pigro, disteso in presenza di morbide descrizioni (di ambienti interni, della scena del crimine, del carattere di un personaggio), concitato, spezzato, sovente essenziale nei dialoghi (e nelle azioni) che vedono coinvolto colui che dà il titolo al romanzo, vale a dire “il redentore”. Come, ancora, la scrittura, che oscilla tra il polo della mimesi diretta della realtà (scrittura di primo grado) e il polo della letterarietà, nella quale la Bibbia e l’arte sacra possiedono un grande rilievo (scrittura di secondo grado). Tali antitesi, le quali rimandano obliquamente al profondo “discidium” interiore che lacera sia il personaggio del “redentore” sia il personaggio del commissario Malaspina, pur non pervenendo mai a sintesi, tuttavia nel loro coesistere e alternarsi sulla pagina comunicano al lettore un’impressione di equilibrio, di medietà. Un’impressione, questa, che invece non è dato provare quando la coppia in gioco è quella costituita dal Bene e dal Male.

Nel romanzo di Vincenzo Galati, infatti, il secondo termine appare predominante, a tal punto predominante da meritare l’attributo di assoluto. La felice conclusione dell’inchiesta che consente di arrestare l’esecutore di una serie di efferati delitti, in quest’ottica, è soltanto apparente. Essa vale, se vale, solamente sul piano strettamente giudiziario: il colpevole è stato catturato, al delitto segue il legittimo castigo. Sul piano etico, però, le cose stanno diversamente: nessuna compensazione, nessun pareggio. Il Male, nell’universo morale di Vincenzo Galati, è debordante e, come tale, non si lascia stringere-costringere entro le maglie della giustizia, dell’equità, della riparazione del torto. L’essere umano non è una bella creatura, la colpa di Adamo fa precipitare l’umanità dallo stato di perfezione a uno stato di peccato, di dolore, al quale neppure Cristo sembra in grado di porre rimedio. Ma qual è la colpa di Adamo? Il desiderio di potere, se è vero che avere la conoscenza del bene e del male equivale ad avere tutto in proprio potere. È questo che Adamo lascia in eredità all’umanità, è questo che il commissario Malaspina amaramente deve alla fine riconoscere: “il potere di vita e di morte” è un piacere che, una volta gustato, “non si dimentica più”. Tanta è la forza e tanto è il fascino che da esso si irradia, che né l’esercizio della ragione né la virtù della giustizia né l’imperativo del perdono possono nulla dinanzi al potere del Male. Il passo che segue è tratto dal capitolo iniziale. Il libro sarà presentato sabato 10 maggio alle ore 18 presso la Libreria Mondadori (che compare come spazio anche nel romanzo in questione) di via Montanini 112.   

               

“Siena, 29 giugno 2023. I due uomini si guardano per un istante negli occhi. Divisi da un abisso. La richiesta di pietà della vittima si infrange contro l’odio dell’assassino, impegnato a preparare la scena con meticolosa attenzione ai dettagli. Uccidere è facile, martirizzare e redimere è qualcosa di molto più complesso. Il redentore tira con forza la corda che lega le due assi di legno. Pietro lo osserva, gli occhi sbarrati, mugola dietro il nastro isolante che gli copre la bocca. Sa che morirà, perché il redentore gli ha mostrato il volto per tutta quell’infinita settimana in cui ha perso il conto del tempo. Una settimana durata un’infinità, tanto da non ricordarsi nemmeno che prima, appena sette giorni prima, aveva ancora una vita, un futuro… Quella settimana di isolamento gli ha tolto ogni possibilità di reazione. Una settimana trascorsa a letto, immobilizzato da catene rivestite di gomma per non fare rumore, annebbiato da oppiacei, a digiuno. Una settimana di silenzio, imbavagliato. Una settimana altrove. È debole, deperito, intontito. È consapevole che sono tornati nel suo appartamento, quello dove abitava prima, quando era Pietro e aveva una vita. Si sono spostati nelle opre più buie della notte. Nessuno li ha visti o sentiti”.

Vincenzo Galati, Il redentore, Mursia, Milano 2025

 

a cura di Francesco Ricci