Sbarcata a Pisa dalle galee genovesi, transitata da Firenze, la peste scoppiò a Siena in maggio. Ne conosciamo i terribili effetti grazie alle parole di Agnolo di Tura detto il Grasso, un custode delle Biccherna con non comuni capacità letterarie. Gli appestati venivano colti da febbri e mal di testa, e i linfonodi del collo, delle ascelle e dell’inguine si gonfiavano in tipici bubboni dolenti. In capo a una settimana i malati se ne andavano all’altro mondo. Il morbo poteva anche evolvere nella fase più letale, quella polmonare, quando si trasmetteva più facilmente da persona a persona attraverso la tosse: allora l’infetto spirava nel giro di tre giorni, tossendo e sputando sangue, spargendo oltre al contagio l’orrore.
Le vittime si contavano a centinaia ogni giorno, e in breve non si trovò più chi fosse disposto a trasportare i cadaveri alle numerosissime fosse comuni che venivano scavate ovunque. Agnolo il Grasso dovette seppellire con le sue stesse mani cinque suoi figlioli. Si moriva senza il conforto degli uffici divini, perché quei religiosi che ancora non erano morti si erano dati alla fuga. E con la stessa altissima incidenza morivano i medici e i notai, accorsi al capezzale dei moribondi per stilare il testamento. Infatti Ambrogio Lorenzetti, presentendo la morte, il 9 di giugno scriveva le sue ultime volontà di suo pugno, in volgare. Fu probabilmente la vittima senese più illustre, ucciso dalla Grande Moria con tutta la famiglia e il fratello Pietro.
Il 18 luglio moriva anche il cavaliere francese Louis de Chamelet, sepolto con la sua splendida armatura nella sacrestia di San Vincenzo e Atanasio, mentre per l’emergenza si sospendevano le sedute del Consiglio Generale. “E morivane tanti, che ognuno credea che fusse finemondo”…
Giovanni Mazzini
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