Se il giornalismo d’informazione riveste la missione di trasmettere i fatti così come sono accaduti, il giornalismo narrativo vuole invece trasmettere al lettore, attraverso il vissuto soggettivo del personaggio del racconto, le emozioni che un luogo può donare. La rielaborazione narrativa come modalità per ricostruire l’esperienza soggettiva di abitare propone al lettore una comprensione profonda della realtà e nuovi stimoli all’immaginazione. E’ la prima rubrica che non racconta i fatti su Siena, ma cosa si può provare a viverla.(link qui)
“Ci conoscemmo quando entrai a servizio nella tenuta del Chianti. L’epidemia di colera aveva ucciso lo stalliere precedente, lasciando nelle stalle del Signore un posto vacante. Non che io me ne intendessi, di cavalli. Avevo solo quindici anni. Era stato mio padre a trasmettermi un amore sfrenato per gli animali, diceva che si imparava più da loro che da qualsiasi bocca umana, e allora avevo sviluppato una certa confidenza con i loro gesti muti e i nitriti che, se ascoltati a dovere, comunicano quanto una lingua di sintassi e grammatica.
Tre anni dopo la mia entrata a servizio, il signore si sposò. Era Caterina, la sposa: quindici anni meno di lui, boccoli neri che d’inverno le coprivano le spalle dal freddo, un giro vita da bimba che sfociava a sorpresa nell’ampiezza di due fianchi da donna. Alle radici, una famiglia di piccoli proprietari terrieri con molti debiti da saldare.
La sua prima entrata dal cancello della tenuta – nella mano destra un’ombrellino turchese e il braccio sinistro attorcigliato a quello tozzo e goffo del padrone – somigliò all’entrata in scena di un cerbiatto in un bosco aperto alla caccia: i suoi occhi si guardavano attorno furtivi, scandagliando tutto ciò da cui avrebbe dovuto difendersi. In quell’entrata nella sua nuova vita incontrarono i miei: due umili pupille color nocciola, di età e carattere più vicine alle sue di quanto non lo fossero quelle del padrone. Mi sorrise, sotto l’imbarazzante cappello di piume appena ricevuto.
Nelle occasioni in cui il padrone si concede una gita di svago, fuori dai suoi giri per affari, a Caterina viene concesso di varcare il perimetro della tenuta. Questa domenica li ho portati fino al centro di Siena. Davanti all’Albergo La Scala li ho fatti scendere, e sono venuto a parcheggiare la carrozza nel vicolo a fianco. Ho abbeverato, strigliato e nutrito i cavalli. Ho visto anch’io, per la prima volta, il Duomo e Piazza del Campo.
Adesso la sera inizia a scendere. Dentro alle camere d’albergo, la luce delle candele si fa sempre più fioca. Io attendo, che ogni luce cessi d’illuminare questo mondo d’apparenze. Che il Signor Conte si addormenti e Caterina possa abbandonare in punta di piedi il posto nel letto che non le appartiene, chiudere senza essere udita la porta di un albergo dove non avrà più i soldi per entrare. Tornare al puzzo d’animali e fieno da cui proviene.
Riparati in questo vicolo attenderemo l’alba. Guarderemo per la prima volta insieme le stelle, ridendo del puzzo degli altri stallieri che russano fra il fieno dei loro cavalli.
È una scelta, la sua: fra la fedeltà a ciò che prova e le comodità di una vita agiata, da signora. Il mio respiro è appeso a questo dilemma che da sempre pesa sulla testa dell’umanità. Attendo immobile, come un collo su cui sta per essere decisa la libertà o la decapitazione. La campana rintocca nove volte. Ma aspettate, mi sembra adesso d’udire, dei piccoli passi avvicinarsi…”
Sollevo la penna dal taccuino. Fra i muri stretti di Vicolo delle Carrozze rimbomba l’eco di ruote di legno e zoccoli di cavallo sul cotto pavimentato, solleticandomi le orecchie con la scia di possibili storie lontane.
Duccio
Testo di Giada Finucci
Foto di Nicolò Ricci