
L’ultimo romanzo di Massimo Marcucci è un romanzo essenziale e veloce e, perciò, attualissimo. Dico ciò prescindendo completamente dalla vicenda narrata, incardinata su una serie di delitti che hanno luogo nella città di Siena e che impegnano l’ispettore in pensione Igor De Carli in una difficile inchiesta. L’essenzialità e la velocità, infatti, rimandano alla scrittura e alla costruzione del libro. La prima è caratterizzata da una sintassi prevalentemente paratattica, che poco concede all’abbellimento stilistico e alla digressione-descrizione fine a se stessa. Da questo punto di vista, può essere istruttivo allineare alcuni degli incipit dei singoli capitoli: “Laura, quest’oggi, è vestita in modo impeccabile: tailleur chiaro e una preziosa parure che le adorna il collo slanciato”, “Il commissario Lucatti, seduto alla scrivania del suo ufficio si sta intrattenendo con i suoi fidi collaboratori allo scopo di fare il punto sull’evoluzione delle indagini”, “Una strada di campagna, solo in parte asfaltata, è a malapena illuminata dai fari di una piccola utilitaria che procede a passo d’uomo tra le verdi colline impreziosite dalle vigne del Chianti”, “È notte fonda. Tre macchine della Polizia stanno uscendo dal piazzale della Questura per dirigersi verso la periferia della città”.
La seconda, invece, vale a dire la costruzione del libro, rinviene il suo elemento qualificante nell’impiego di capitoli ora brevi, ora brevissimi, oscillanti tra un minimo di due e un massimo di cinque pagine. L’effetto prodotto nel lettore è quello di trovarsi di fronte a una rapidissima successione di fotogrammi, a una trama spezzettata dal continuo cambiare della scena, dei personaggi, dell’azione. In questo senso “Incubo” è veramente definibile come un romanzo essenziale e veloce, che “brucia” la vicenda delittuosa e l’inchiesta finalizzata a scoprire ed arrestare il colpevole anziché dilatare il tempo sia della prima che della seconda. In questo risiede, a mio avviso, l’autentico punto di forza del libro. L’autore, infatti, ridisegna il modo di scrivere un romanzo giallo in un’epoca, la nostra, nella quale tutto si è fatto accelerato (eccesso e accelerazione sono le caratteristiche di fondo della postmodernità) e frammentato (interruzione e impazienza rappresentano gli elementi su cui si basa il nuovo paradigma di acquisizione del sapere). È questa la ragione per la quale “Incubo” di Massimo Marcucci a me pare essere il più attuale dei romanzi gialli attuali. Il passo che segue è tratto dalla “Prefazione”, un momento di quiete distesa che, per contrasto, rende ancor più concitato il ritmo narrativo delle pagine successive.
“Una chiesa di campagna, nascosta in una piccola radura, circondata da siepi e cipressi, ridotta ormai ad un rudere, con i muri solcati da incrinature sempre più ampie e gli angoli delle pareti con le pietre aggredite dal verde marcio dell’umidità di decenni. Lungo il lato sinistro della facciata principale, una pianta d’edera, dopo aver provato, inutilmente, a risalire fino al tetto, si è ormai arresa alla scalata non appena giunta all’altezza di quella che, anticamente, è stata una trifora, adesso ridotta ad umile ingresso di pioggia e vento e destinata a riparo di varie specie di volatili. Di fronte all’ingresso, sulle pareti di fianco al portone, si notano, disegnate da un’abile mano, alcune figure geometriche, facilmente riconducibili a dei macabri simboli di natura esoterica. Mentre la brezza del primo mattino si accompagna alla timida luce dell’alba, un uomo, avvolto in un mantello nero, si avvicina al portone della chiesa con andatura lenta e passi stanchi e pesanti. Sulle spalle tiene un sacco di iuta che lascia intravedere la carcassa di un animale. L’uomo apre lentamente il portone e, una volta entrato nella chiesa, getta il sacco per terra e si inginocchia davanti ad un altare sul quale sono riposti dei grandi ceri di colore rosso. Dalla sua bocca escono suoni gutturali ed alcune timide parole, decisamente incomprensibili”
Massimo Marcucci, Incubo, Betti, Siena 2024
a cura di Francesco Ricci