Sotto il cielo della storia è impossibile trovare riparo, non c’è difesa. Si vive, ci s’incontra, si stringono legami significativi, si fa l’amore, si lotta, ma non ci si salva. La storia procede, ma non è certo che abbia una direzione né tantomeno un senso. Al pari del tempo, si consuma e ci consuma. “Sotto il cielo della storia” costituisce l’opera della maturità artistica di Piero Fabbrini. Le vicende del senese Arrigo Zanardi e le vicende del nostro Paese nella prima metà del Novecento convivono nel romanzo e s’intrecciano in modo perfetto. La “strage industrializzata” della Grande Guerra e della Seconda guerra mondiale non solo uccide uomini destinati a diventare anonimi dati statistici sulle pagine di saggi e manuali scolastici. Essa recide come fiori singole esistenze, che hanno un nome, che hanno un vissuto, la cui scomparsa, per chi le ha incontrate e amate lungo il cammino della vita, segna una rottura tra il (loro) prima e il (loro) dopo. Piero Fabbrini nulla concede all’insopportabile retorica della guerra, di cui la prima vittima è lo stesso protagonista, Arrigo, interventista della prima ora. E nulla concede neppure alla edulcorata retorica dei sentimenti, che grava come una cappa di piomba su tanta narrativa contemporanea, coi suoi finali che si aprono alla speranza, all’idea che il domani metterà a posto tante cose, che il peggio è ormai alle spalle e che quello che bussa alla porta è un tempo di bontà e di rinnovata innocenza.
La storia, e Piero Fabbrini lo sa bene, non è mai innocente e non conosce idillio: ciò che spezza, non può venire riparato. Certo, può accadere, a volte anche accade, che chi si è amato profondamente, come Arrigo e Beatrice, riesca a ritrovarsi, dopo anni che sono sembrati secoli, e ad avvertire che intatta è in entrambi la forza del reciproco desiderio. Ma tale possibilità non è affatto garanzia di una convivenza futura: di fronte all’irruzione della violenza e del male anche l’amore si scopre impotente. E accanto alla morte provocata dalla guerra, in “Sotto il cielo della storia” ampio spazio è concesso anche alla morte interiore, alla morte dell’anima; ed è proprio questo secondo tipo di morte che arricchisce la fisionomia del romanzo, allentando i suoi legami, che all’inizio apparivano saldi, con la letteratura del Neorealismo. E quando lo sguardo del narratore si rivolge alla psicologia di Arrigo, appare chiaro che Arrigo non è uomo innocente. Nessuno lo è. Ma se la pace consente di frenare l’impulso distruttivo e autodistruttivo che abita nel profondo di ciascuno di noi, la guerra, invece, lo libera, lo fa emergere prepotentemente. E così accade che chi la violenza l’ha subita, e ne reca le tracce nel corpo, come Arrigo, la violenza la eserciti, e non sul nemico, ma su chi gli è amico, su chi si avvicina a lui con le migliori intenzioni. D’altra parte, la bestialità della guerra consiste anche in questo, nel provocare l’irruzione del disumano nell’umano: ai militari e civili uccisi, ai ponti fatti saltare, alle città bombardate o abbandonate, occorre aggiungere, tra le conseguenze peggiori, anche l’eclissarsi della parte migliore di noi. Ma Arrigo non sa rassegnarsi, non accetta mai completamente ciò che di brutto ha commesso, non lo scorda, pur provando a convincersi che “il male conviveva, in natura, con il bene”. I suoi giorni di vita, divengono così giorni segnati dal senso di colpa e dall’aspirazione a una vita migliore – una vita buona – per sé e per gli altri. Il romanzo di guerra – delle guerre e della Resistenza – si fa così romanzo esistenziale, acquisendo un respiro che lo porta ben oltre i limiti della mera rappresentazione del periodo storico nel quale è ambientato (1915-1944). Il passo che segue è tratto dal primo capitolo (“Maggio 1915”).
“Per essere una di quelle che sarebbero state ricordate come le “radiose giornate di maggio” il tempo non prometteva niente di buono. Il sole non riusciva a penetrare un cielo già plumbeo mentre grandi nuvole nere, gravide di pioggia, si stavano accumulando all’orizzonte e un vento ancora freddo le spingeva verso la città. Nonostante la stagione inclemente una grande folla si stava radunando all’interno dei giardini della Lizza. Praticamente era presente tutta la popolazione di Siena favorevole all’intervento in guerra a fianco dell’Intesa. Alcuni volenterosi avevano portato delle grandi scatole di legno reperite in un vicino magazzino, con le quali era stato troppo rapidamente eretto, nelle vicinanze della statua edificata in onore di Garibaldi, un traballante palco sul quale diversi coraggiosi oratori si erano via via arrampicati per arringare la folla. Arrigo Zanardi cercava disperatamente di avvicinarsi al palco, però la ressa non glielo consentiva. Da dove di trovava riusciva a percepire solo qualche smozzicata frase degli oratori, ma si univa comunque alle urla di assenso e agli applausi dei partecipanti. Il poco che riusciva a intendere gli piaceva assai ed era sufficiente per manifestare la propria approvazione: “Destino… sacro dovere… esclusione dal consesso delle grandi nazioni… rigenerante bagno di sangue… risorgimento non completato… il Vate… D’Annunzio… gloria… Giolitti pusillanime”. Quando anche l’ultimo oratore ebbe completato la sua arringa, come da programma, la folla iniziò a spostarsi lentamente per completare la manifestazione dirigendosi verso piazza del Campo, transitando per il corso cittadini.”

Piero Fabbrini, Sotto il cielo della storia, nuova immagine, Siena 2025
a cura di Francesco Ricci