
“A ragion perduta”, l’interessantissima opera d’esordio di Sabatino Guzzo, deve essere intesa in primo luogo come una richiesta d’aiuto rivolta alla poesia. Richiesta privata e personale, dal momento che privato e personale è il pericolo che l’io lirico si trova a dover affrontare. Ma anche richiesta pubblica e generica – sebbene in misura certo inferiore – poiché il poeta è ben consapevole del carattere universale che ogni esistenza possiede e che consente al lettore di ritrovare sempre un po’ di stesso nei versi scritti da altri. Ma qual è il pericolo che incombe, il pericolo che avanza, e che rende l’essere al mondo un combattimento senza esclusione di colpi, come viene detto in una lirica appartenente alla quinta e conclusiva sezione di “A ragion perduta”? Una risposta credo che ci venga fornita dal titolo della raccolta. Nella sua polisemia, infatti, esso richiama e contraddice la locuzione “a ragion veduta”. Non c’è nessuna considerazione in corso, infatti, non c’è nessuna riflessione in atto. Ci sono state, sono state fatte. Ma non hanno condotto ad alcuna conclusione che non fosse quella di riconoscere l’insufficienza della ragione nello spiegare e nell’ordinare la realtà. Da questo punto di vista, si può parlare di “ragion perduta”, di ragione, cioè, che perde la sua sfida nei confronti dell’opacità indecifrabile del mondo (non a caso, “ombra” e “nero” sono due delle occorrenze lessicali più significative).
La quota di non-senso che ogni creatura patisce ed esperisce, a partire dal dolore fisico, dalla sofferenza dell’anima, dagli strappi violenti di persone care che il tempo ci ha rubato, strappi che si pongono al di là del nesso casuale colpa-punizione, finisce col rendere la terra un deserto, dove a volte certi fiori ancora crescono e addolciscono la vita – l’amore, l’amicizia, i legami familiari, la bellezza naturale, una melodia o il verso di una strofa – e una pioggia di dolci memorie rinfresca il cuore, ma dove è, nel complesso, l’insensatezza a dominare. Tale dialettica pieno-vuoto, luce-ombra, dove il primo termine delle due coppie oppositive risulta essere quello più debole, è indagata da Guzzo sempre partendo dalla propria esperienza concreta. La conseguenza è che anche la tensione a una dimensione altra rispetto a quella meramente fenomenica, che fa capolino in “A ragion perduta”, non risulta mai astratta: l’approdo, che la poesia, può solo suggerire o intravvedere, conserva sempre tracce della partenza, che è “questa terra”, “questo mondo”, “questa vita”.
Ma se dal punto di vista conoscitivo pare imporsi la drammatica verità che il reale, e dunque anche ogni singola esistenza, è assurdo o, tutt’al più, inspiegabile, la scrittura riesce a dare un volto al caos in cui si dibatte il poeta. Scrivere, infatti, permette tanto di avere almeno l’illusione di tenere tutto sotto controllo (la lezione di Italo Calvino) quanto di portare alla luce le esperienze dimenticate in qualche sottoscala dell’anima (la lezione di Ernesto Sabato). Inoltre, quando si parla di scrittura in versi, la metrica, l’uso di strutture aperte o chiuse, le rime col loro corredo di assonanze e consonanze, il ritmo, la figuralità, concorrono a confermare o a smentire la fiducia nella possibilità che la poesia sia in grado di fornire un aiuto dinanzi al pericolo sopra menzionato (l’opaco caos del reale), dal momento che “tengono sotto controllo” e “assicurano ordine”, sul piano della forma, a ciò che s’impone ai sensi e poi alla ragione come “fuori controllo” e “privo di ordine”. Guzzo questa fiducia la possiede, ed è per questo che “A ragion perduta” deve essere letto in primo luogo come una richiesta di aiuto rivolta alla poesia. Gli echi letterari ben presenti nel libro – da Ungaretti a Montale, da Sbarbaro a Luzi, da Caproni a Sereni – di conseguenza, andranno interpretati come una consonanza di stile o di poetica, che palesa la volontà di Guzzo di inserire la propria produzione all’interno di una costellazione d’autori, nei quali gli esperimenti neoavanguardistici definiscono, tutt’al più, una breve stagione: per lui, infatti, sono i “lirici nuovi”, non i “nuovissimi”, gli autentici maestri.
Le due poesie che seguono costituiscono i testi liminari della prima delle cinque parti in cui è diviso il libro.
Le porte della percezione
chiuse
dal vento sconosciuto
del conforme.
Aprile,
finalmente inizia
il tormentoso viaggio
tra luce ed ombra.
Come pioggia di maggio
scendi, leggera e fugace
rinfrescando d’illusoria pace
il buio mio, nel suo difettoso raggio.
Sabatino Guzzo, A ragion perduta, Attraverso, Viterbo 2024
a cura di Francesco Ricci